“Call me by Your Name”: tra charm, rivoluzione e staticità

Premessa necessaria

“Che senso ha scrivere a dicembre di un film che è uscito ed è stato visto a febbraio?”

– si chiederanno i miei quattro lettori (non è una figura retorica in stile manzoniano, ma proprio il numero effettivo dei lettori di questo blog)… e, a ben vedere, non hanno tutti i torti: ho abbandonato questi lidi digitali per un lunghissimo periodo, finendo quasi per dimenticarmi della loro esistenza. Del resto non è sempre semplice ritagliarsi del tempo quando prima lo studio e poi il lavoro occupano gran parte delle tue giornate. Anche se potrebbe sembrare la più inanimata e virtuale delle materie, un blog ha bisogno di cura ed attenzioni costanti, come una piantina o il lievito madre, per fare un esempio gastronomico che non guasta mai. Una delle cose positive del periodo di disoccupazione che, ahimè, sto vivendo da qualche settimana a questa parte, è proprio il fatto di potermi ritagliare – tra un colloquio di lavoro e un invio massivo di curricula su LinkedIn – del tempo da dedicare a queste paginette di diario cinematografico virtuali, sulle quali ho deciso di ricominciare a scrivere ed annotare pensieri ed impressioni.

Questa dimensione ritrovata del tempo, più dilatata e meno frenetica, si ricollega bene al film di cui voglio parlare oggi. In più, scriverne soltanto ora che l’anno è quasi finito, mi porta ad affermare con più consapevolezza che Call me by your name è stato uno dei film se non più belli, aggettivo che vuole dire tutto e non vuol dire niente, più significativi di questo 2018. 

call-me-by-your-name
Elio ed Oliver che vivono la dimensione dilatata del tempo leggendo ad un tavolino di un bar

Molti mesi prima dell’uscita del film nei cinema italiani, la rete era già stata invasa da svariate immagini, ma soprattutto canzoni e musiche di questa pellicola. Tutto ciò, resistendo al rischio di banalizzazione, ha invece quasi paradossalmente alimentato un senso di mistero e attesa appassionata riguardo alla nuova opera dell’apprezzato regista Luca Guadagnino. È anche per questa fascinazione che quella sera sono andata al cinema con aspettative altissime; non solo perché avevo letto quasi solo opinioni e recensioni entusiaste riguardo l’ultimo lavoro di Guadagnino, ma soprattutto per via della colonna sonora che era già stata diffusa settimane prima sulle maggiori piattaforme di streaming musicale. Perché tutto questo insistere proprio sulla colonna sonora? Ma è ovvio, perché nella tracklist – oltre a raffinati pezzi di Bach, di musica classica e barocca che si alternano a successi pop e dance anni ’80 – figurano ben due brani inediti del genio della fascinazione e delle atmosfere metafisiche e metatemporali della musica indie contemporanea: Sufjan Stevens. La testimonianza di quanto ami profondamente questo musicista potrete trovarla qui.

La musica, quindi, alimenta una fascinazione costante che ritroviamo anche come tema e filo conduttore del film stesso. Questo è proprio uno classico esempio di film in cui la colonna sonora è protagonista della narrazione, al pari dei personaggi, ma ad un livello ulteriore e quasi “trascendentale”: è uno charm pervasivo e necessario, poiché se essa non ci fosse, o se fosse diversa da come è,  il film, con le sole pur belle e fin troppo curate immagini, non avrebbe la forza che ha. Questo non vuol dire che siamo davanti ad un’opera che si salva grazie alla musica, ma è evidente, in questo film più che in altri, come musica e immagini si compenetrino in maniera indissolubile.

a6f3e648a861fcedaec476ad9331dc0dDbUmMTcX0AICbZOmaxresdefaulttumblr_inline_p1elg8p1bV1reeae6_500

Il film inizia sulle note dell’Hallelujah Junction di John Adams, le prime immagini che si vedono scorrere sullo schermo durante i titoli di testa sono fotografie di reperti archeologici e statue greche, l’ex studentessa di liceo classico che è in me inizialmente ha esultato a questa visione, e, via via che il film prende corpo si capisce che la statua è un simbolo di un ideale di bellezza proprio della grecità classica che il film tenta per tutto il tempo di richiamare, riuscendoci. Il protagonista stesso, Elio, con la sua figura efebica e la sua passione per lo studio e tutte le belle arti, incarna appieno il concetto di kalokagathìa dell’antica Grecia e la perfezione quasi geometrica di alcune inquadrature trasmette la calma ieratica delle architetture classiche. Almeno per il primo quarto del film si avverte questa staticità, non c’è particolare pathos o slancio, tutto obbedisce ad un ordine non casuale, è semplicemente dove deve essere.

1_jUR6M3SLl5vWk9aE8l9l0ACallMeStatue-1-1038x576call-me-by-your-name-3000

 

A distanza di molto tempo posso dire che alcune cose mi sono piaciute molto, e che su altre continuo ad avere ancora qualche riserva.  È un’opera esteticamente molto ben realizzata, non c’è dubbio; tuttavia la prima parte, quella della staticità – descrittiva più che narrativa – non mi ha coinvolto più di tanto a livello emotivo. Al cinema all’inizio ero molto distaccata e non empatizzavo con nessun personaggio, anzi tutta questa perfezione mi annoiava. Il sovvertimento dell’ordine, quella scintilla che innesca la narrazione stessa che mette in moto gli eventi, arriva troppo tardi; è vero anche, di contro, che alla fine del film mi stavo quasi mettendo a piangere. La progressione e lo sviluppo, anche se tardivi, ci sono nel messaggio di libertà e amore (o libertà d’amore). Certo, le condizioni alle quali questo sentimento si manifesta sembrano alquanto utopiche, ma la passione che ne esce é pura, affatto elitaria.

Uno dei grandi meriti di questo film, infine, è il fatto che riesca magistralmente a non banalizzare mai quel misto di ricordo e nostalgia che, come lo charm della musica, è palpabile e tangibile per tutta la sua durata: la nostalgia delle estati interminabili che non ritornano più, della noia totale da riempire con letture e musiche, del primo, vero, rivoluzionario e sconvolgente innamoramento.

 

Lascia un commento